L’approccio della mindfulness trae la propria origine dalla tradizione meditativa del buddhismo classico, ma applicato ai contesti quotidiani, all’esperienza di vita e agli spazi relazionali in cui siamo immersi ogni giorno.
Non bisogna quindi essere un asceta o un monaco tibetano per poterla praticare con beneficio.
Ma quali sono le applicazioni della mindfulness, che obiettivi si pone, a chi si rivolge e cosa non è?
Purtroppo non esiste un termine italiano per tradurre esattamente mindfulness, ma una definizione che penso ben descriva tale approccio è la “consapevolezza intenzionale al momento presente in modo non giudicante” (Jon Kabat-Zinn).
Dall’incontro coi pazienti nella pratica clinica, mi sono reso conto che molti problemi originano proprio dalla complessità della nostra mente e dall’uso che in modo più o meno consapevole ne facciamo ogni giorno.
Se tale complessità naturalmente è stata un valore aggiunto fondamentale nel corso della nostra evoluzione, senza di cui ci saremmo già estinti, è altrettanto vero che di frequente questa risorsa ci si possa ritorcere contro: facciamo molta fatica a essere semplici, perché siamo “progettati” per essere complessi. Pensiamo ad esempio al rimuginare ossessivamente con pensieri che invece che trovare una soluzione a un problema, diventano loro stessi il problema, alimentando ansia, tristezza o paura.
L’attenzione non giudicante della mindfulness, proprio in quanto semplice si rivela per noi complessa perché non siamo abituati a osservare noi stessi e men che meno a farlo senza giudicarci. La mindfulness invece ci insegna a osservarci con un atteggiamento non giudicante, vivendo il momento presente così com’è, senza negare ciò che non ci piace, che non vorremmo o che ci fa soffrire.
Le emozioni
Dal punto di vista mentale rappresenta un modo totalmente contro intuitivo perché fin da piccoli veniamo incoraggiati a esprimere come unica emozione la gioia, mentre le altre emozioni vengono perlopiù inibite o esplicitamente negate (“non arrabbiarti”, “non avere paura”, “non devi essere triste”). La mindfulness invece ci insegna a rivolgere piena attenzione al nostro disagio e alla nostra sofferenza, senza cercar subito di mandarli via, ma entrandoci in profondo contatto.
In questo senso è totalmente contro intuitiva, perché in automatico è istintivo quando stiamo male cercare subito di spostare tale malessere, ma è proprio lasciandogli spazio che possiamo trovare, quando ci sono, le modalità e le risorse più efficaci per gestire le cause che ci fanno soffrire.
La mindfulness quindi non è un modo mistico per entrare in qualche forma di trance, non è una modalità per garantirsi un facile benessere psicofisico e nemmeno una forma di “buonismo” che ci spinge ad accettare tutto passivamente né ad accogliere acriticamente quello che ci accade.
L’applicazione primaria della mindfulness nasce e rimane in ambito clinico: in psicoterapia uso diverse tecniche di mindfulness, integrandole con altre mediate dalla Psicoterapia Breve Integrata per trattare disturbi d’ansia, del tono dell’umore, di personalità o da stress correlato all’ambiente lavorativo.
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